I pazienti con disturbi della personalità, che presentano una diffusione dell’identità ed una tendenza a ricorrere alla scissione come principale meccanismo difensivo, costituiscono per un terapeuta una sfida ben più impegnativa di quella rappresentata dai disturbi nevrotici.
Una sofferenza disperante, l’ansia che rende il paziente incomprensibile, le continue telefonate, le condotte autolesionistiche, le minacce di suicidio, i comportamenti rischiosi messi in atto fuori delle sedute, persino gli attacchi violenti diretti contro la persona del terapeuta o – all’estremo opposto – la tendenza al ritiro, la comunicazione fumosa e la mancanza di congruità tra particolari stati d’animo e le storie agghiaccianti cui questi sono connessi.
Questi sono tutti comportamenti che mettono in crisi il terapeuta, tenendolo in una condizione ansiogena, spaventato a volte, oppure come assopito in uno stato di inerzia.
Il terapeuta può perdere di vista l’obiettivo del trattamento e andare avanti per mesi o anni, addirittura, nella convinzione che il paziente sia un cliente a vita, che ha bisogno di un contatto perenne con il terapeuta per restare fuori dai guai.
Lavorare con i pazienti che soffrono di disturbi di personalità può, in alcuni casi, rivelarsi pericoloso.
Infatti i terapeuti devono essere preparati a gestire minacce di suicidio, di omicidio e aggressioni fisiche, anche se, in molti casi, questi episodi sono connessi a una lacuna dei terapeuti che non hanno portato in consultazione le proprie apprensioni in merito.
Ad esempio, una diagnosi di disturbo dipendente di personalità potrebbe forse spiegare i tanti rifiuti che questi pazienti collezionano da parte dei terapeuti, più che per ogni altro disturbo, infatti questi pazienti, normalmente, manifestano in modo spudorato il desiderio di ottenere dagli altri un’attenzione incondizionata, cosa dalla quale, la maggior parte delle persone riesce a sottrarsi difensivamente.
Una terapia di sostegno che, accogliendo questi bisogni, cerchi di aiutare il paziente a realizzarne l’aspirazione senza allontanare gli altri può rivelarsi utile nel mitigare l’impatto negativo che questi pazienti esercitano sugli altri.
Un esempio clinico
Paziente: “Non so se riesco a sostenere questo trattamento. Ho bisogno di contatto. Sono stato escluso da una terapia cognitivo comportamentale per aver abusato del cercapersone del mio terapeuta, e da un trattamento con una terapeuta con la quale mi ero legato molto perché non facevo che chiamarla continuamente”.
Terapeuta: “Bè, a ogni modo ora siamo qui, e dobbiamo cercare di fare un lavoro insieme. Non ho un cercapersone e a volte non mi è possibile rispondere ai messaggi lasciati in segreteria telefonica prima di sera, sera tardi. Ma lei potrebbe aver imparato più di quel che immagina dalle sue precedenti esperienze di terapia. Ho proprio voglia di vedere quello che possiamo fare. Lei può chiamarmi in qualsiasi momento e lasciare un messaggio e io le risponderò, a meno che non sia lei a dirmi che non è necessario”.
Al principio il paziente chiamò parecchie volte al giorno, ma non chiese quasi mai di essere richiamato.
La terapia si è conclusa con un esito positivo allo scadere dell’anno, così come era stata programmata.
Un disturbo di personalità può minare le capacità di un terapeuta altrimenti competente, perché i terapeuti che si occupano di pazienti con disturbi di personalità necessitano di una particolare forma di supervisione, onde evitare le insidie e gli stalli in cui i migliori terapeuti possono incappare, avendo a che fare con questi pazienti.
I terapeuti di maggiore esperienza e preparazione lavorano per lunghi periodi senza richiedere una supervisione oppure una consultazione.
Quando vi ricorrono, nella maggior parte dei casi è perché si trovano in una difficoltà ingenerata dal procedimento terapeutico, anche perché i terapeuti tendono ad associare la supervisione ad un’idea di fallimento, di eccessiva dipendenza o di inesperienza professionale, mentre un tale discredito della supervisione risulta curioso se si considera il ruolo di primo piano che assolve in altri ambiti disciplinari.
Infatti attori affermati continuano a prendere lezioni di recitazione per tutta la vita, così come pure i grandi ballerini e i musicisti, per cui non si spiega perché, nella professione medica, per qualche motivo, si è affidato un grande valore all’idea di “farcela da soli”, anzi, questo assunto etico sembra aver contaminato la pratica di molti psicoterapeuti.
2 risposte
Precisiamo, onde evitare confusione all’utenza, che quella dello psicologo è diventata professione sanitaria solo dal 2018 e NON è, in nessun caso, una professione medica. In altre parole, gli psicoterapeuti non sono ad alcun titolo medici, non possono prescrivere farmaci o effettuare diagnosi che le richiedano in ambito clinico, compito che spetta al medico psichiatra. Per esercitare come medico è necessario innanzitutto conseguire una laurea in medicina e chirurgia, e successiva specializzazione.
Gli psicologi e gli psicoterapeuti sono regolarmente iscritti ad un Ordine Professionale che ne regola le attività, tra le quali, assolutamente , è previsto diagnosticare, https://www.psy.it/nomenclatore/ ,
https://www.ordinepsicologi.piemonte.it/wp-content/uploads/2021/06/diagnosi-elementi-tecnici-definitivo.pdf , https://ordinepsicologi.piemonte.it/wp-content/uploads/old/biblioteca-multimediale/Atto+diagnostico.pdf
https://www.psy.it/allegati/parere_diagnosi.pdf